Lo sviluppo di una strategia a tutto campo è un fattore trainante della digitalizzazione per il 61,6% delle grandi imprese in Italia e per il 31,4% delle PMI: questi dati, emersi dal Rapporto Imprese e ICT di Istat pubblicato a gennaio e relativo all’anno 2024, indicano chiaramente che in molte aziende manca ancora la consapevolezza di che cosa significhi veramente fare trasformazione digitale. Gli investimenti non mancano, sia tra le grandi che tra le piccole (il 40,5% delle PMI prevede di aumentare il budget nei prossimi due anni rispetto al biennio precedente), ma le tecnologie non fanno la trasformazione digitale. Anzi, a detta degli stessi CIO, considerare la digitalizzazione un tema solo tecnologico è il primo grande errore che un’azienda possa commettere sul suo cammino di evoluzione e modernizzazione, perché il cuore del cambiamento è organizzativo, in qualunque settore operi l’azienda.
“Per qualunque esigenza si abbia, la tecnologia c’è: non è lì il problema. Sì, ci si potrebbe trovare a valutare quale tipo di cloud scegliere, o se un’applicazione AI è utile, ma il vero tema è di gestione e di processo: come affrontare le sfide in modo efficace mettendo l’accento sulle persone”, afferma Tommaso Pagnini, CIO di Profilglass.
“L’errore più grosso è non pensare in modo strategico”, ribadisce Marco Foracchia, CIO di AUSL Reggio Emilia. “Fare tanti passi slegati senza la visione d’insieme non porta da nessuna parte. Si rischia di comprare sistemi ICT in modo casuale e si accumulano tecnologie e viene meno la possibilità di innestare nella strategia logiche più ampie come la strategia per la cybersecurity, la privacy, il cloud e l’AI. Questi non sono acquisti singoli, ma elementi trasversali di un’ampia strategia”.
Ecco come evitare le trappole e garantire la riuscita della trasformazione digitale aziendale.
1. Considerare la trasformazione digitale un tema solo tecnologico
Un primo passo falso è considerare la trasformazione digitale un puro tema tecnologico, quando invece è organizzativo.
“Penso che un errore da non commettere sia far guidare la digital transformation dagli strumenti”, spiega Giuseppe Pitarresi, CIO di Omer spa (azienda specializzata nel settore della progettazione e produzione di componentistica ferroviaria). “Va bene seguire i trend del momento, ma bisogna evitare di affastellare prodotti senza un piano ragionato, il digitale va sostenuto con i cambiamenti organizzativi”.
Perciò, per riuscire nella trasformazione digitale, bisogna che ci siano in azienda persone orientate al cambiamento. Pagnini di Profilglass suggerisce di identificare degli “agenti del cambiamento”, che non sono necessariamente gli specialisti IT, ma che vanno “identificati e coltivati tra le persone del business che mostrano una mentalità orientata alla digitalizzazione dei processi”.
Queste persone devono conoscere bene i processi della propria funzione, afferma Pagnini, “ma devono anche avere capacità di astrazione, perché ciò permette loro di capire non solo come funzionano oggi le cose ma come potrebbero funzionare domani, con quali strumenti, con quale riorganizzazione del lavoro, ritorni di efficienza, e così via, in modo da farsi portatori di proposte concrete all’IT sui prodotti da selezionare e implementare”.
Foracchia riferisce che l’AUSL Reggio Emilia ha un gruppo di pianificazione strategica che definisce la strategia ICT e questo gruppo è costituito da persone non dell’IT e con un mandato del business, che dà la direzione. Ovviamente anche l’ICT è parte di questo gruppo di pianificazione e ha anche un ruolo strategico, non solo tecnico.
“Abbiamo anche dei key user che individuiamo per istituire un contatto continuo con l’utenza e ottenere feedback costanti tra gli utenti sanitari e il team IT”, osserva Foracchia. “Ogni utente interno deve sapere, se ha una domanda, un problema o una visione evolutiva, qual è il canale per comunicarli, addirittura anche la singola persona a cui rivolgersi, ovvero o l’utente chiave o uno specifico referente del gruppo di pianificazione strategica”.
La mancanza di visione strategica è un grande ostacolo alla trasformazione digitale anche per Flavia Marzano, Digital Transformation Consultant, Vice presidente Caffè della Scienza Livorno, SW Heritage Ambassador. Marzano ha sempre lavorato nella PA e sottolinea come in questo caso la mancanza della vision risalga dal dirigente fino al politico.
2. Affidare le competenze “chiavi in mano” a terzi
Alcuni CIO affermano che i vendor potrebbero non agevolare il cambiamento culturale che favorisce la visione della trasformazione digitale come cambiamento strategico, perché pongono l’accento sulla tecnologia come soluzione che basta a coprire ogni esigenza.
Perciò è importante evitare di affidarsi interamente al fornitore per il know-how: °_infatti, molti CIO, anche se usano software e servizi in cloud, tendono a riportare in casa alcune competenze strategiche.
“Questo va tenuto presente nelle valutazioni del vendor”, afferma Pagnini. “Per esempio, farà formazione del personale interno? Al vendor non vogliamo affidare un compito chiavi in mano: è più utile se il fornitore si affianca all’azienda e fa knowledge transfer”.
C’è un altro forte rischio legato alle competenze: la presenza, nelle imprese, di figure particolarmente carismatiche ed esperte, solitamente dei veterani dell’azienda, che possiedono una “conoscenza tacita”. Si tratta di quel bagaglio di nozioni che una o alcune persone possiedono e con cui riescono a far funzionare l’intero IT, ma che non è una conoscenza formalizzata e condivisa, per cui, quando queste persone escono dall’azienda, perché cambiano lavoro o vanno in pensione, si crea un pericoloso vuoto di competenze e tanti prodotti IT restano “scoperti” nella loro manutenzione.
Per esempio, potrebbero essere figure che hanno partecipato attivamente allo sviluppo o alla personalizzazione di una piattaforma, senza aver messo nero su bianco tutte le procedure, o che hanno un filo diretto con il fornitore basato su una relazione personale.
Possono anche essere i consulenti esterni della software house: molti CIO sottolineano la necessità di vigilare su dove risiedono le competenze affinché l’azienda non si trovi improvvisamente svuotata di know how.
3. Imporre il cambiamento dall’alto
Sottostimare la comunicazione e la condivisione degli obiettivi e della strategia IT con gli utenti, calando le soluzioni dall’alto, è un altro degli errori in cui non cadere nel percorso di digitalizzazione.
“Forzare l’innovazione digitale è un errore, è fondamentale il change management”, osserva Fabio Mattaboni, CIO di diverse aziende del settore industriale. Mattaboni racconta che, in una passata esperienza in una multinazionale che era organizzata con filiali locali autonome nel rapporto col cliente, a un certo punto il CEO aveva deciso di introdurre un CRM uguale per tutti per dare una visione omogenea e complessiva. Questa scelta è stata percepita dalle varie filiali come uno strumento di controllo corporate ed è stato osteggiato a tal punto che non veniva usato: le funzioni commerciali remavano contro e si tenevano i dati per sé. Il CEO allora ha forzato la mano e chiesto che ogni persona dimostrasse di aver svolto le sue attività sul CRM.
“È stato un caso estremo e anche sgradevole”, afferma Mattaboni. “Qui l’errore si è verificato a monte, bisognava procedere diversamente fin dall’inizio. I progetti digitali devono essere preceduti da regole di ingaggio, occorre coinvolgere i team e premiare le persone per i risultati. E poi le persone vanno informate costantemente con la comunicazione quotidiana tra gruppi di lavoro su quali sono i progressi e gli obiettivi”.
Secondo Mattaboni, se non si può fare a meno di imporre un cambiamento, per ragioni cogenti, bisogna almeno trasmettere il messaggio che il coinvolgimento degli stakeholder nel progetto è vantaggioso, e questo si fa “attraverso un’adeguata politica retributiva”.
Nella PA esiste un ulteriore aspetto, spiega Marzano: “Un errore comune è investire nella tecnologia ma non pensare all’utente finale, che è innanzitutto il cittadino, ma anche il dipendente pubblico. Quando si progetta un sito, per esempio, i requisiti che dovrebbero essere previsti by design sono la facilità d’uso e l’accessibilità, e non sempre questo accade”.
Tra l’altro, l’imposizione dall’alto rafforza la naturale resistenza al cambiamento, prosegue Marzano: “I dipendenti hanno paura di perdere il loro ruolo, se non addirittura il lavoro, con tecnologie come l’AI, ma questo accade nella cultura organizzativa rigida, in cui non si comprende che le persone possono andare a fare altro, magari di più interessante e stimolante, come avviene quando si aumenta il ricorso a automazione e AI”.
4. Non misurare le risorse a disposizione
Un altro errore da evitare è non valutare adeguatamente le proprie risorse, in termini sia di denaro che di competenze.
In teoria, con ogni progetto di digitalizzazione, bisognerebbe assumere una persona in più, affermano molti CIO. Ovviamente, questo non è quasi mai possibile e il direttore IT deve svolgere un delicato lavoro di mediatore tra le esigenze del business, che fissa il budget e chiede determinati risultati finanziari, e le necessità di competenze per permettere che i progetti digitali abbiano successo.
Per esempio, Massimo Bollati, Direttore della Trasformazione Digitale dell’Agenzia del Demanio, si è trovato di fronte all’esigenza di skill per il data management: nel percorso di trasformazione digitale dell’Agenzia, un tassello fondamentale è stato, infatti, quello di preparazione e pulitura dei dati. La difficoltà non era il reperimento delle tecnologie, ma la definizione dei processi e la formazione delle persone.
Per dotarsi delle risorse che gli servivano, Bollati ha implementato tre azioni: ha investito nella formazione interna, non solo in aula ma, anche e soprattutto, on the job; ha proposto delle assunzioni ad hoc per avere profili non ancora presenti in Agenzia; e ha cercato la massima contaminazione con il mondo universitario e dei centri di ricerca, per esempio mandando alcune delle persone interne a seguire dei master o portando dei dottorandi in Agenzia.
“È stata l’iniziativa che ha dato i maggiori benefici”, sottolinea Bollati. “Posso dire che oggi il Demanio ha una direzione digitale molto innovativa, moderna e proattiva, grazie al mix di queste tre azioni, e che siamo stati in grado di dare vita ad un IT che come spirito è molto vicino ad una startup digitale”.
5. Non pensare nel lungo periodo
Una trappola in cui le imprese rischiano di cadere quando si digitalizzano è di procedere in un’ottica day-by-day, colmando singole e specifiche necessità a macchia di leopardo. Invece, per trasformarsi, occorre definire una strategia di ampio respiro, con uno sguardo a lungo raggio.
“Appena entrato in azienda il mio primo compito è stato definire il piano di sviluppo di medio periodo, che poi si è tradotto in una serie di progetti classificati per priorità”, afferma Pagnini. “Il disegno generale della strategia evolutiva dell’azienda è indispensabile. Le iniziative vanno messe in una griglia che valuti e confronti impatto e valore (per esempio, i costi versus i risultati)”.
Secondo Pagnini, il mantra del libro di Jim Carroll “Think big, start small, scale fast” resta valido: all’interno di un quadro di largo respiro si procede per progetti concreti che cominciano in piccolo e poi scalano velocemente appena si dimostrano validi.
“Non bisogna chiudersi nel bunker dell’IT, lavorando a grandi progetti senza confrontarsi con il business e le persone. Invece, meglio procedere con piccoli progetti fattibili e concreti”, afferma Pagnini.
6. Trascurare le necessità di software integration (nel business)
Nell’IT moderno non esistono più i sistemi monolitici e questo garantisce agilità e velocità all’azienda. Ma ne deriva la necessità dell’integrazione tra i software.
“L’IT deve avere delle persone che sanno lavorare sulle integrazioni. Non si tratta solo di integrazione tecnologica, ma funzionale”, evidenzia Pitarresi. “In pratica, queste persone sono dei business partner interni all’IT che hanno totale visibilità sulle soluzioni che si integrano con le diverse aree funzionali”.
La software integration, insomma, è un dialogo IT-business, perché, se le soluzioni nascono dall’IT e vengono calate dall’alto, si ricade nell’errore dell’imposizione del cambiamento; se, invece, sorgono e restano nel business si rischia di creare tanti silos non comunicanti.
“L’IT presidia e armonizza i requisiti funzionali nel piano di integrazione: tutti i sistemi si devono parlare”, sottolinea Pitarresi. “È un problema di organizzazione, più che di tecnologia. Le tecnologie non mancano: – prosegue il CIO – basta andare sul quadrante Gartner e si trova quello che serve. Il vero punto è calare le tecnologie nei processi”.
È un aspetto che anche Marzano porta alla luce per quello che riguarda le PA.
“Un grande ostacolo alla trasformazione digitale negli enti pubblici è il fatto che spesso manca l’interoperabilità: i dipartimenti hanno software diversi non relazionati e non si riesce a condividere i dati e a cooperare”, afferma Marzano. “Un altro errore che spesso si commette è di non rendersi conto che, quando si compra un nuovo software, magari perché quello precedente non esiste più o è cambiata la normativa, occorre reingegnerizzare i processi: il nuovo software non sostituisce automaticamente quello vecchio”.
7. Sottovalutare la forza del mindset
Infine, ma non meno importante, l’evoluzione della mentalità è una parte fondamentale del cambiamento, come sottolinea Nicola Marra,responsabile IT di F.lli Veroni (produttore di salumi dal 1925).
“La nostra società ha 100 anni, siamo nati ben prima della rivoluzione digitale. E anche se siamo stati pionieri nell’uso di applicazioni moderne, anche in fabbrica, abbiamo una forza lavoro con tante generazioni diverse e si fa fatica a cambiare il modo di lavorare tra chi è abituato a fare le cose in un certo modo. La trasformazione digitale deve partire da una nuova mentalità e l’IT è protagonista nell’aiutare a cambiare il mindset”, tiene a precisare Marra.
L’elemento culturale è cruciale anche nella Pubblica Amministrazione: per Marzano sarebbe molto importante alleggerire la burocrazia.
“Il Codice dell’Amministrazione Digitale ha 20 anni ed è stato cambiato così tante volte che è diventato un testo mostruoso”, dichiara l’esperta di trasformazione digitale. “Servono delle linee guida chiare e snelle. Lo stesso vale per le gare d’appalto, così complesse da richiedere lunghi e farraginosi processi decisionali. Alla fine tra la scelta di una tecnologia e la sua effettiva adozione passa troppo tempo e si rischia che quella tecnologia sia già superata”.
L’IT come business partner: così il CIO non può sbagliare
Per evitare problemi, bisogna comunicare e gestire il cambiamento, sottolinea Pagnini: “È come costruire una nuova corsia in autostrada: c’è un lavoro in corso che crea qualche disagio e richiede tempo e occorre mettere dei cartelli per informare sull’andamento, i tempi previsti e i benefici attesi. Fare comunicazione interna sui progetti e gestire le escalation è essenziale, anche perché la comunicazione chiara sulle finalità delle iniziative è la base per il change management”.
Il change management è riconosciuto da tutti i CIO come una componente chiave della trasformazione digitale, perché deve guidare le persone alla nuova modalità operativa, accompagnandole a superare la naturale resistenza.
Potremmo dire, in effetti, che non fare change management è l’errore più grande di tutti che si porta dietro tutte le altre mancanze. E che il CIO difficilmente sbaglia se è una figura che entra nella C-suite, partecipa alla definizione delle strategie e comprende le esigenze e le priorità del business.
“Ho spesso lavorato in aziende che attraversavamo dei forti cambiamenti ed è fondamentale capirsi con il business e aiutare le persone del business a costruire i requisiti per gli strumenti digitali”, conclude Pitarresi. “In definitiva, l’IT deve essere un business partner, altrimenti, sarebbe sufficiente avere una società di consulenza al posto dell’IT interno e comprare i prodotti tecnologici”.
E sappiamo che non è così, perché non è la tecnologia da sola che fa la trasformazione e genera i ritorni.
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