“Per cambiare ci vuole la motivazione, e la motivazione è un vantaggio: l’utente deve vedere che, a fronte del suo sforzo, otterrà un miglioramento rispetto alla situazione precedente”. Con questa filosofia, Giuseppe De Vivo, CIO e ICT Manager di Rinaldi Group (manufacturing di materassi), ha vinto una delle principali sfide della trasformazione digitale nella piccola impresa in cui lavora: la resistenza mentale al cambiamento.
“Le sfide della digitalizzazione in una PMI sono sia tecnologiche che culturali, ma queste ultime sono preponderanti”, afferma De Vivo, che è anche membro del CIO Club Italia.
Per le PMI l’innovazione è essenziale se si vuole restare competitivi, ma l’attuazione dei progetti non è sempre facile. L’ultimo studio di Istat (“Rilevazione sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese”) ha evidenziato che, nel 2023, le piccole e medie imprese italiane sono ancora penalizzate nelle attività specialistiche di digitalizzazione. La transizione digitale non decolla per due motivi fondamentali: la mancanza di competenze (che pesa nelle capacità più evolute, come quelle per l’utilizzo dei dati e dell’intelligenza artificiale) e la difficoltà a passare dalla semplice implementazione tecnologica al cambiamento culturale e organizzativo (che emerge, per esempio, nell’adozione dei software gestionali). Così, il 60,7% di imprese con 10-249 addetti si colloca a un livello base di digitalizzazione (quattro attività digitali su 12 secondo il Digital Intensity Index dell’Istat), contro il 91,1% delle imprese con 250 o più addetti.
“La spinta alla digitalizzazione impressa dal Covid ha aiutato a fare il salto sulle applicazioni di base, ma le piccole imprese restano lontane da standard accettabili sulle applicazioni più sofisticate”, evidenzia Stefano da Empoli, presidente del think tank Istituto per la Competitività (I-Com). “Mentalità, risorse e competenze sono sicuramente le sfide che frenano la digitalizzazione delle PMI, ma il punto di partenza è nel top management, spesso rappresentato dall’imprenditore, che deve essere consapevole della portata strategica del digitale per il business e innescare il cambiamento”.
La prima sfida: il fattore umano del cambiamento
Quando, però, la direzione decide che è il momento di innovare, può insorgere un altro ostacolo: i dipendenti potrebbero non accogliere favorevolmente il cambiamento, perché lo sentono “calato dall’alto”. Ed è qui che interviene il CIO.
“Se le persone vivono l’innovazione come imposizione, il CIO deve agire sul fattore umano”, afferma De Vivo di Rinaldi Group, “spiegando i benefici della novità tecnologica, come una migliore qualità nel lavoro, prestazioni più alte o semplificazione”.
Per esempio, nel 2000, Rinaldi Group ha deciso di sostituire il vecchio ERP con un moderno ERP di classe enterprise. Rispetto al precedente, il nuovo sistema prevede processi standard: in alcuni casi il team IT è riuscito a elaborare delle personalizzazioni che hanno mantenuto inalterato il lavoro usuale, ma in altri casi sono stati i dipendenti a doversi adattare. Questo ha significato per il CIO rassicurare i colleghi che si occupavano dei documenti di trasporto ancora in modo manuale, facendo copie cartacee conservate nel tradizionale faldone. Adesso ogni operazione era automatizzata e la reazione ha colto De Vivo di sorpresa.
“Ho visto sui volti disegnarsi stupore e poi tristezza”, racconta il CIO. “Mi hanno detto: questo prodotto è bellissimo, ma noi che cosa faremo? La paura era di perdere il lavoro, e ho dovuto spiegare che non era assolutamente questo lo scopo del nuovo ERP. Semmai, l’intenzione era di liberare tempo e valorizzare le competenze di queste persone, spesso con anni di esperienza. Di lì è derivata l’accettazione; anzi, alcuni colleghi hanno finito col suggerire modifiche e miglioramenti del prodotto e si è innescato uno scambio a due sensi, una collaborazione IT-Operation, che è sempre molto proficua”.
Sfida numero due: il budget
In altri casi, la trasformazione digitale non incontra resistenze, perché c’è la spinta dal basso: è l’utente che chiede di modificare un processo e introdurre innovazione. Ma, anche qui, possono insorgere delle difficoltà: per esempio, non c’è il budget, manca il tempo oppure non si dispone delle necessarie risorse tecnologiche.
“In questi ultimi mesi ci stiamo scontrando con l’ostacolo del budget non adeguato nei progetti legati alla robotica industriale, che è molto importante nelle linee di produzione, e all’uso dell’intelligenza artificiale”, riferisce De Vivo. “Noi vorremmo andare in questa direzione, ma i preventivi che ci sono stati fatti non sono in linea con le nostre possibilità di PMI”.
Rinaldi Group, infatti, sta valutando dei robot che sostituiscono alcune fasi manuali della produzione, ma sono grandi e costosi e, per ora, l’acquisto è rinviato.
L’implementazione di tecnologie di intelligenza artificiale è un altro punto dolente. “Abbiamo contattato diverse aziende e la miglior candidata ci ha chiesto 100 mila euro, di cui 20 mila di studio fattibilità. Sono cifre per noi non adeguate”, afferma De Vivo.
Una situazione analoga si è verificata quando il CIO ha cominciato a pensare di innalzare il livello di cybersecurity in azienda e ha contattato “un fornitore importante con prodotti di IA applicata alla sicurezza molto efficaci”, evidenzia il manager. Ma il contratto che è stato proposto era di 30 mila euro all’anno e la proprietà non è voluta andare avanti.
“Non è perché non ci interessano progetti di questo genere, ma noi con 30 mila euro l’anno possiamo dare lavoro a una persona e sostenere la sua famiglia. Per una piccola impresa vicina al territorio anche questo è un fattore da considerare”, spiega De Vivo.
Tre: il difficile equilibrio sulla sicurezza
Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI della School of Management del Politecnico di Milano, conferma che, molte volte, le piccole imprese rinunciano agli investimenti in aree come la cybersicurezza e l’intelligenza artificiale. Ma alla radice c’è sempre la necessità di un cambio di mentalità e di paradigma.
“L’imprenditore deve comprendere che la sicurezza informatica ha un impatto sulla business continuity: alcune imprese che hanno subito attacchi si sono fermate per 2-3 mesi”, evidenzia Rorato. “C’è anche un impatto sul modello di business, perché nella supply chain una buona reputazione sul fronte cyber crea fiducia e genera ricavi”.
Spesso, inoltre, la sicurezza è gestita dai tecnici con il linguaggio dell’IT e l’imprenditore non ne coglie gli aspetti di business.
“Ma soprattutto”, prosegue Rorato, “non possiamo dare tutta la responsabilità della transizione digitale agli imprenditori che, nella piccola impresa, sono letteralmente travolti dalla gestione quotidiana. È l’ecosistema che deve intervenire a supporto: software house, associazioni di categoria, banche, Innovation Hub, Competence Center, Innovation Manager, e così via, possono e devono aiutare le imprese a prendere le decisioni e a gestire le implementazioni. Ai dirigenti bisogna far conoscere gli incentivi pubblici a disposizione e portare i dati concreti sui rischi, far sapere che le PMI sono dei bersagli per gli hacker, e che i benefici della cybersicurezza si vedono sul conto economico”.
Quattro: attrarre le competenze
Quando, però, la sicurezza è cruciale per il core business, le imprese mettono in campo budget adeguati. Il CIO di una piccola impresa dell’energia racconta che la proprietà ha di recente alzato i suoi investimenti sia in tecnologie di cybersecurity sia in risorse umane, acquistando sistemi backup e di data loss prevention e siti di disaster recovery. Inoltre, l’azienda sta cercando di inserire una figura specializzata sulla cybersicurezza IT.
“Vorremmo reperirla sul mercato, ma assumere non è facile per una piccola impresa; intanto stiamo sopperendo con adeguata formazione interna”, precisa il CIO.
Qui si evidenzia un’altra sfida per le PMI: attrarre i talenti. Il ricambio generazionale e l’investimento in competenze sarebbero molto importanti, ma le piccole imprese non possono offrire gli stipendi e i percorsi di carriera delle grandi imprese. Ancora una volta, occorre azionare la leva del cambiamento culturale, offrendo ai giovani candidati lo smart working e percorsi di formazione e ricordando che work-life balance, gender equality, diversity e crescita personale sono il “pane quotidiano” per le nuove generazioni.
“Più che l’addestramento tecnico, oggi serve la formazione culturale, che lavora sugli aspetti attitudinali e la comprensione degli impatti della tecnologia sulla propria attività”, sottolinea Rorato. “E, in aula, devono andare anche gli imprenditori, perché per gestire il cambiamento occorre saper elaborare una nuova visione. I titolari d’azienda devono essere i primi a capirlo, inserendo figure IT specializzate, investendo nella tecnologia come abilitatore della competitività e nella formazione. L’ecosistema deve dare una mano, fornendo gli strumenti e i contenuti”.
Anche per da Empoli di I-Com, “è fondamentale la consapevolezza dei vertici, che, per esempio, si può fondare su una valutazione dello stato tecnologico attuale e degli investimenti che si potrebbero fare per una trasformazione pervasiva che dia veramente competitività. Anche potenziare gli incentivi pubblici in Formazione 4.0 sarebbe molto importante”.
Cinque: usare gli incentivi pubblici
De Vivo sta facendo leva esattamente su tre dei punti di forza sottolineati dagli esperti: l’ecosistema (ovvero i fornitori tecnologici, che possono mettere in campo strumenti e competenze), una giovane neoassunta, e gli incentivi pubblici. In questo modo, laddove non arriva il budget, interviene lo sviluppo software in-house. Per esempio, per l’intelligenza artificiale, De Vivo sta studiando i prodotti open source e li sta testando con la sua collaboratrice a margine del lavoro usuale: l’obiettivo è sviluppare un piccolo sistema di IA interno.
Un caso analogo riguarda l’automazione degli impianti produttivi (Rinaldi Group ha due stabilimenti e un terzo in fase di realizzazione). “Nella digitalizzazione delle fabbriche secondo il paradigma Industria 4.0”, racconta De Vivo, “ci siamo trovati di fronte a due possibilità: make or buy, ovvero farci noi le interfacce e le interconnessioni tra le macchine, o acquistarle. Abbiamo scelto la prima opzione, collaborando con i fornitori dei macchinari utilizzando gli incentivi del programma: per noi queste agevolazioni sono preziose”.
Per questo l’azienda sta studiando il Piano Transizione 4.0 e intanto sfrutta le opportunità del PNRR sull’innovazione digitale.
“Abbiamo esteso il progetto già avviato sulla tracciabilità del prodotto, che consideriamo una funzione essenziale”, dichiara De Vivo. “Realizzeremo dei varchi Rfid per l’uscita dei materassi taggati, in modo da sapere con certezza se su un mezzo vengono caricati i materassi previsti da quell’ordine”.
Anche qui, il manager vorrebbe spingersi oltre: l’idea è di applicare l’automazione anche all’inventario del magazzino, usando dei droni dotati di antenne che passano tra gli scaffali e rilevano il prodotto. Ma occorre il partner giusto e ci vogliono risorse economiche adeguate per la dotazione tecnologica. In particolare droni e antenne sono costosi, perciò il progetto resta in attesa.
Sei: usare i dati per crescere
Ci sono, poi, le piccole imprese che scalano verso le medie dimensioni, e qui il compito del CIO è particolarmente strategico. È il caso di Save the Children in Italia: cresciuta rapidamente (come personale, raccolta fondi e progetti realizzati), l’organizzazione non governativa ha dato vita a un vero dipartimento di innovazione e trasformazione digitale. Con la riorganizzazione che ne è seguita, circa due anni fa, Lorenzo Catapano, che già guidava l’area Digital, è stato scelto per ricoprire il nuovo ruolo di Head of Innovation, Digital Tech and Data della Ong.
“Questo ruolo accentra gran parte delle funzioni trasformative (IT, dati e innovazione) guidando la trasformazione digitale e l’innovazione all’interno dell’organizzazione. Riporto al Direttore Transformation & Operations che, a sua volta, riporta alla Direttrice Generale: è, quindi, un ruolo che riconosce la portata trasformativa del digitale, trasversalmente a tutta l’organizzazione e questo costituisce un passo notevole rispetto al passato”, afferma Catapano.
Dal riconoscimento della tecnologia come “enabler” sono conseguiti un aumento del budget e delle risorse umane (superando, dunque, quelli che per le imprese piccole restano spesso degli scogli). Anche il perimetro IT si è allargato: il nuovo piano organizzativo prevede non più solo la parte delle infrastrutture (parco macchine, rete, cybersicurezza) ma anche delle applicazioni e della manutenzione (siti web, sistemi ERP, HR system, eccetera).
“La prima sfida di una funzione di CIO nella crescita organizzativa riguarda la razionalizzazione dell’architettura applicativa e la possibilità che i vari sistemi comunichino efficacemente”, evidenzia Catapano. “Per quanto riguarda il fronte applicativo, è in corso un numero importante di progetti che si concentrano sull’integrazione dei vari sistemi, sulla revisione delle applicazioni core e sulla possibilità di strutturare un’architettura funzionale alla gestione del dato come asset strategico per l’Organizzazione in ottica data-driven”.
Sette: collegare la tecnologia con il business
Gestire sia l’ambito infrastrutturale che quello applicativo vuol dire adottare una visione a lungo termine, pensando a come far evolvere i sistemi in base all’evoluzione dell’organizzazione. Per questo la ONG ha ridefinito la sua struttura e inserito una funzione che fa da ponte tra lo sviluppo tecnologico e le esigenze del business, e che include persone che si occupano di analisi funzionale e che conoscono le varie aree in termini di strategie e necessità. Il piano operativo, infatti, vede un dialogo a due sensi tra Tecnologie e Aree Organizzative, affinché la funzione Digital Technology sia percepita concretamente come un business partner.
“Realizzare questo modello e instaurare un dialogo efficace tra tecnologia e aree organizzative è sempre una grande sfida per le PMI, ma è molto importante quando un’organizzazione cresce velocemente”, afferma Catapano. “La funzione che è tipica del CIO deve saper razionalizzare per priorità le esigenze che arrivano dal business; essere a sua volta proattivo nel proporre nuove soluzioni; essere efficace nel decidere quali sono le aree in cui le tecnologie possono produrre più valore; istituire una governance del master plan; e avere una vista olistica della trasformazione digitale dell’organizzazione”.
Catapano crede molto nel ruolo dell’area Technology come business partner, perché – sottolinea – un dialogo fruttuoso evita il rischio che il business, anziché rivolgersi all’interno, verso le risorse tecniche deputate, si crei da solo soluzioni proprie che possono risolvere il problema nel breve termine, ma che non sono sostenibili e, soprattutto, coerenti con la strategia.
“È importante definire una chiara governance affinché la tecnologia sia considerata come un investimento per il presente, ma soprattutto per il futuro”, evidenzia Catapano.
Come vincere le sfide: change management, CIO strategico e community
In definitiva, la vera grande sfida della funzione del CIO nelle PMI (e non solo) è il change management che, però, se attuato correttamente, aiuta a superare ogni altra sfida. Gestire il cambiamento, infatti, vuol dire sviluppare una nuova mentalità che affida all’IT non solo il compito di realizzare soluzioni, ma anche di pensarle insieme al business partendo dalle loro necessità e dagli obiettivi più ampi dell’organizzazione, secondo Catapano.
Il Chief Information Officer stesso è parte della soluzione, evidenzia Rorato. Per esempio, nel caso degli investimenti in digitalizzazione (che sia con fondi pubblici o privati), nessuno meglio del CIO può aiutare i dirigenti a comprenderne il valore e a calcolarne il ritorno.
“Soprattutto nelle realtà più piccole, l’IT manager spesso viene visto come un tecnico informatico. Invece, va coinvolto nella valutazione delle strategie e nel supportare le decisioni fornendo i dati e le analisi che permettono di capire come l’investimento nella digitalizzazione partecipi alla generazione di valore sia economico sia finanziario, ottenendo più efficienza, sicurezza, compliance, controllo della supply chain”, spiega Rorato.
Ma il CIO deve sempre essere sostenuto dall’imprenditore. Altrimenti, osserva da Empoli di I-Com, “Anche se il CIO è esperto e lungimirante, il rischio è che ci sia un ICT molto evoluto all’interno di un contesto di digitalizzazione dell’impresa non maturo, e questo impedisce di sfruttare le potenzialità della tecnologia di trasformare il business”.
L’imprenditore, il titolare o il CEO, insomma, devono vedere il CIO come partner con cui dialogare sulle strategie aziendali, e questo diventa ancora più essenziale man mano che l’impresa cresce. Anche perché, se la società amplia le sue dimensioni, non potrà più prescindere dall’investimento sui dati e sulla cybersecurity e il Chief Information Officer deve farsene portavoce.
“Le aziende che crescono e si digitalizzano devono imparare a strutturare, gestire e utilizzare i loro dati in modo coerente e uniforme e inserire figure concompetenze sui dati, inclusa la data security”, indica Rorato.
C’è poi tutto il ruolo del network, o della community. Le PMI guardano alle altre imprese simili per cercare casi d’uso, soluzioni ed ispirazione, esattamente come i CIO si confrontano con gli altri loro pari. È molto importante che le imprese capiscano il valore della collaborazione nella supply chain o anche, semplicemente, dell’emulazione: i manager e gli imprenditori sono molto aperti ad ascoltare l’esperienza dei loro pari. Si tratta di un elemento così rilevante che l’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano lo ha reso il pilastro del suo modello che misura la maturità digitale delle piccole e medie imprese.
CIO, Digital Transformation, Small and Medium Business
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