L’IT aziendale non appartiene più soltanto al dipartimento IT: dall’HR al Marketing, dalle operazioni di fabbrica alla casa dei dipendenti in smart working, l’information technology ha ormai stabilmente varcato i confini dell’ufficio del CIO. Questo implica per il Direttore IT perdere il controllo sulle tecnologie che gli utenti aziendali usano? Se si tratta di AI e GenAI un rischio esiste. Un lavoratore su quattro in Italia, già usa l’intelligenza artificiale generativa, come ha svelato il più recente Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano. E in quale misura questo utilizzo avviene sotto la sorveglianza del CIO? È la vecchia storia del BYOD (Bring-Your-Own-Device) che si ripete: anche lì per il Chief Information Officer si poneva un problema di controllo su quali dispositivi entravano e uscivano dall’azienda e, quindi, sulla sicurezza dei sistemi e dei dati aziendali. Ora, come evidenziato dallo studio di Microsoft e LinkedIn “2024 Work Trend Index” [in inglese], “le persone si portano la loro AI al lavoro” (ricordiamo che Microsoft ha investito in OpenAI, sviluppatore di ChatGPT, e integra la sua tecnologia), tanto da far parlare di una tendenza al “Bring-Your-Own-AI” o BYOAI. In media, su 31.000 lavoratori intervistati in 31 Paesi, il 75% usa modelli e strumenti di intelligenza artificiale, spesso scelti e gestiti in autonomia, per aiutarli a gestire una mole di lavoro sempre più voluminosa.
Di conseguenza, il controllo resta le parola d’ordine, come hanno evidenziato gli esperti di BearinPoint, multinazionale indipendente di consulenza strategica, manageriale e tecnologica, nella ricerca “AI-driven transformation: Becoming an augmented organization”, basata su insight raccolti da 700 dirigenti C-level in Usa, Asia ed Europa (Italia compresa) a giugno 2024.
Per gli executive della prima linea, CIO compresi, stabilire una governance dell’AI “è vitale per diventare una augmented organization”; tuttavia, il 44% delle organizzazioni non sa come fare. BearingPoint suggerisce di istituire un quadro di riferimento cross-dipartimentale per assicurare visibilità condivisa su tutti i progetti AI e il loro allineamento con gli obiettivi di business e con usi etici e sicuri anche in termini di data privacy, compliance e trasparenza.
Nell’era dell’IT decentrato, infatti, è più che mai cruciale che il CIO esca dalle “stanze dell’IT” per interagire – alla pari – con il resto della C-suite e i dipartimenti non-IT per la governance dell’AI e, al tempo stesso, metta in campo le sue specifiche competenze per offrire consulenza sugli acquisti delle tecnologie e assicurare che ogni prodotto e servizio goda di supporto. La società di ricerche Gartner definisce l’AI un approccio condiviso e un gioco di squadra, perché attraversa i confini delle business unit ma, almeno in questa fase, il CIO è la figura più adatta a rivestire il ruolo di coordinatore e supervisore delle iniziative sull’AI, sia perché ha competenze tecniche e sui dati, sia perché ha un ponte diretto con il business e può guidare la selezione di progetti che abbiano efficacia sulle operation.
In questo contesto, quattro trend meritano l’attenzione del CIO per evitare che i progetti AI escano dal suo radar:
1. AI nell’HR: il CIO deve collaborare con il CHRO
Una delle aree più impattate dall’AI su cui il CIO non deve abbassare il livello d’attenzione quella delle le Risorse Umane (HR). In Italia, rivela il citato Osservatorio del Polimi, il 32% delle aziende utilizza almeno una soluzione di AI nei processi di selezione del personale. Nella maggior parte dei casi si tratta di chatbot o assistenti virtuali a supporto di attività amministrative, della navigazione degli applicativi aziendali o dell’onboarding; di sistemi di elaborazione del linguaggio naturale, prevalentemente per lo screening dei CV; e di sistemi di raccomandazione per suggerire i percorsi formativi più adatti ai singoli dipendenti.
Inoltre, il 43% delle aziende prevede che l’HR automatizzerà attività e processi ripetitivi e standardizzabili e il 25% introdurrà o potenzierà l’utilizzo di strumenti digitali avanzati per eseguire compiti per cui internamente non avrebbe le competenze necessarie. Sono tutti elementi di cui il Chief Information Officer deve tenere conto: l’HR che si digitalizza ha bisogno del supporto del team IT e di entrare sotto l’ombrello di una governance condivisa nella C-suite.
Un sondaggio di SD Worx, fornitore europeo di servizi HR, conferma: in Italia quasi 34% delle aziende si dice d’accordo con l’avvento di un payroll pienamente digitalizzato ed automatizzato, il 28% fa già uso dell’AI generativa all’interno del processo (classificando l’Italia al secondo posto per impiego a livello europeo); il 36% sta investendo per ampliare l’impiego della GenAI nella propria azienda; e il 45%, dato più alto in Europa, sta attivamente esplorando il potenziale dell’intelligenza artificiale generativa all’interno del posto di lavoro. L’indagine è stata condotta nel febbraio 2024 in 18 Paesi europei, tra cui l’Italia, intervistando 5.118 aziende e 18.000 dipendenti.
E non c’è solo l’AI: secondo Statista, il fatturato annuale globale delle tecnologie per l’HR arriverà a 91,8 miliardi di dollari entro il 2026. Nel corso del 2024, l’attenzione delle aziende si concentrerà soprattutto su strumenti di data analytics, ma anche le tecnologie di automazione sono molto ricercate, perché le Risorse Umane, sempre meno focalizzate su compiti amministrativi, e sempre più sull’ottimizzazione dell’experience dei dipendenti e sulle attività di formazione, hanno bisogno di nuove competenze, che, però, sono difficili da reperire, e l’automazione e l’AI sono un valido supporto al lavoro quotidiano.
Il CIO è chiamato a collaborare strettamente col direttore HR per mantenere la visibilità e la supervisione di queste tecnologie.
2. L’AI ha bisogno di competenze inedite
Quella della difficoltà di reperire le competenze è, del resto, una questione irrisolta nelle aziende che si digitalizzano e l’AI non fa che aumentare l’urgenza di assumere o formare nuovi talenti IT. Lo studio del Polimi rivela che, nel 2024, il 54% delle aziende italiane cerca profili nel campo dell’intelligenza artificiale (+25% rispetto al 2023).
Secondo BearingPoint, in Europa il 58% delle organizzazioni esprime timore per la carenza di personale qualificato, soprattutto nelle aree della pianificazione e dello sviluppo di strategie di GenAI, nella gestione e governance dei dati e nel settore della compliance e dell’etica. L’84% ha detto che sarà fondamentale investire in tecnologia e formazione per colmare il gap di competenze e costruire fiducia nell’AI.
Tra i profili tecnici più ricercati ci sono quelli legati allo sviluppo dell’AI, al machine learning e alla scienza dei dati, inclusi data scientist, sviluppatori di algoritmi e prompt engineer. Ma non solo. Gli esperti di Futureberry, società di consulenza che supporta le aziende nei loro percorsi di trasformazione, innovazione e cambiamento organizzativo, sottolineano la rilevanza crescente degli skill umanistici, come la filosofia: HR e CIO dovranno cominciare a inserirli tra i loro parametri di ricerca quando vagliano i CV.
“La filosofia è il nuovo cavallo di battaglia delle aziende alle prese con l’intelligenza artificiale e con gli interrogativi legati soprattutto al comportamento sociale e all’etica che essa genera”, affermano i consulenti della società. “Grazie all’impostazione umanistica e alla sua chiara visione rispetto alle strade che l’innovazione può aprire, il filosofo digitale funge da ponte tra il rapido avanzamento tecnologico e le implicazioni umane che ne susseguono e agisce per bilanciare l’efficienza tecnologica con la necessità di mantenere la centralità dell’elemento umano sia per la società sia per la cultura aziendale”.
In generale, chi ha seguito studi classici dispone di spiccate capacità di analisi critica e di pensiero laterale che rende queste figure più portate per la creatività. Sono qualità che possono aiutare le aziende a trovare idee e intraprendere percorsi innovativi, anche considerato che, al di là dei profili tecnici, c’è un 25% di nuove capacità da mettere in conto in tutte le occupazioni che sono esposte a dei cambiamenti a causa dell’AI (come stima il PwC AI Jobs Barometer [in inglese]).
Le persone in azienda avranno bisogno di acquisire rapidamente delle competenze specifiche per lavorare insieme agli strumenti di intelligenza artificiale e automazione, secondo i principi dell’augmentation.
3. Tutti vogliono l’AI, ma per investire occorrono nuovi KPI
BearingPoint sottolinea non solo l’assenza di una chiara governance dell’AI, ma anche che appena il 34% delle aziende basa sistematicamente le proprie decisioni di investimento su metriche misurabili. I criteri più comuni utilizzati per dare priorità alle diverse iniziative legate all’intelligenza artificiale sono l’aumento di produttività ed efficienza e – soprattutto tra gli early-adopter – il miglioramento della customer experience e l’aspettativa di un aumento delle vendite.
L’Italia si posiziona più in alto: il 70% ha una forma di governance contro il 56% globale, segno della consapevolezza che l’AI non è solo una tecnologia, ma parte integrante della strategia aziendale. Inoltre, da noi risulta più diffuso il ricorso a valutazioni quantitative nelle decisioni sulle iniziative di intelligenza artificiale: il 53% dei rispondenti si basa su un impatto di business misurabile e sul ROI atteso. Al momento, l’84% delle organizzazioni italiane considera la produttività e l’efficienza come criteri principali per adottare l’AI (contro il 75% globale).
Tuttavia, non è scontato trovare i giusti KPI e misurare il ROI in questi progetti, soprattutto se riguardano la GenAI. Secondo Gartner [in inglese], di qui alla fine del 2025, almeno il 30% dei progetti con l’intelligenza artificiale generativa sarà abbandonato dopo il proof of concept e tra i motivi c’è proprio la difficoltà nel misurare il valore generato, insieme alla scarsa qualità dei dati, all’inadeguato controllo dei rischi e ai costi troppo elevati.
“Le aziende vogliono vedere rapidamente dei ritorni dai loro investimenti in GenAI, ma non riescono a dimostrarne e a realizzarne il valore”, ha sottolineato Rita Sallam, Distinguished VP Analyst di Gartner. “Man mano che i progetti aumentano di dimensioni, il peso finanziario dello sviluppo e dell’adozione dei modelli Gen AI si fa sentire di più”. Il problema è che, almeno per ora, con la Gen AI non esiste un criterio unico per misurare il vantaggio prodotto; inoltre, spesso i ritorni sono di lungo periodo, ovvero “valore futuro indiretto”, più che ritorno diretto sull’investimento (ROI).
Secondo Gartner, analizzando il valore di business e i costi totali dell’innovazione nei modelli di ricavo le organizzazioni possono stabilire sia il ROI diretto che l’impatto futuro dell’impiego della Gen AI, e questa misura può guidare le decisioni di investimento in modo affidabile.
4. I dipendenti usano la GenAI autonomamente, serve la governance
Torniamo al BYOAI. L’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano rivela che, in Italia, il 26% dei lavoratori ha già utilizzato soluzioni di AI generativa nell’ultimo anno, anche se pochi in maniera continuativa (solo il 3% ogni giorno e il 7% un paio di volte a settimana) e l’attività principale è stata la ricerca di informazioni (31%) come una classica barra di ricerca. Ma l’impatto potenziale è alto: secondo i lavoratori, il 24% delle proprie attività può già essere svolto con il supporto di soluzioni di GenAI. Quasi uno su due è preoccupato delle conseguenze, in particolare che il proprio lavoro diventi più precario (26%) o che le proprie competenze siano meno rilevanti (22%). Ma i più ottimisti vedono nell’AI generativa un’alleata per svolgere meglio il lavoro (29%) e sviluppare nuove competenze (23%). Inoltre, il 62% delle aziende ha iniziato a sperimentare soluzioni specifiche a supporto delle attività lavorative, anche se solo il 12% con una guida diretta da parte dell’azienda.
La società di cybersecurity Kaspersky [in inglese] conferma: il 95% dei C-level in otto Paesi (7 dell’UE, tra cui l’Italia, e UK) ha detto che l’AI generativa viene usata regolarmente dai dipendenti e, di fronte a una diffusione così veloce, il 59% si dice molto preoccupato dai potenziali rischi per la sicurezza dei dati sensibili dell’azienda e dalla perdita di controllo sulle funzioni di business. Ma solo il 22% sta già pensando a definire delle regole per vigilare l’uso della GenAI.
Di fronte a questi dati è ancora una volta evidente che il CIO deve fare da raccordo tra i vari trend, più o meno spontanei, legati all’uso dell’AI e del suo sottoinsieme generativo in azienda e, pur lasciando spazio all’IT fuori dal dipartimento IT, mantenere la visibilità e il controllo.
Questo è fondamentale anche per trattenere i talenti: il rischio con l’automazione spinta e l’AI generativa è, infatti, di demotivare le persone e indurle a sentirsi meno rilevanti.
“Per rispondere alle esigenze delle persone è cruciale progettare nuovi modelli organizzativi incentrati su un purpose capace di dare al lavoro un nuovo significato”, afferma Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice.a
Attraverso la sempre più necessaria collaborazione tra il CIO, il Direttore HR e gli altri C-level, è necessario favorire una cultura aziendale dell’apprendimento continuo per potersi adattare ai cambiamenti portati dall’era dell’AI. Le persone devono essere formate con corsi di alfabetizzazione all’intelligenza artificiale, una forma avanzata e specialistica dell’alfabetizzazione digitale che include la capacità di cooperazione uomo-macchina, secondo i principi dell’augmented organization.
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