Tre-quattro anni. Questa è, in media, la durata di un incarico presso la stessa azienda per un CIO. I Direttori dell’IT, secondo diversi studi, tendono a cambiare lavoro a un tasso doppio rispetto a quello dei CFO e quasi triplo rispetto ai CEO. Ci sono diversi fattori che contribuiscono a questo fenomeno, tra cui la mancanza di rappresentanza dei Chief Information Officer nel top management team, la perdita di stimoli e la ricerca di nuove sfide.
Nella nuova edizione del Nash Squared “Digital Leadership Report” (un sondaggio globale di senior technology decision-maker che quest’anno ha visto interpellati 2.015 manager in 62 Paesi tra dicembre 2024 e marzo 2025), i digital leader globali affermano di aspettarsi, in media, di restare nella stessa azienda 3,3 anni. Il dato varia in base a quanto i CIO sono vicini o lontani dall’assunzione e, quindi, da quel periodo che i ricercatori chiamano “la luna di miele” con il datore di lavoro. Chi è appena entrato prevede di restare almeno 2 o 3 anni, ma chi ha già alle spalle alcuni anni nella stessa azienda pensa che non resterà più di altri 6 mesi.
I CIO italiani non fanno eccezione. La mancanza di riconoscimento e supporto, soprattutto se la funzione IT non è integrata nel piano strategico dell’azienda, e il desiderio di continuare a far crescere le proprie competenze con nuovi percorsi professionali sono i motivi principali che inducono a cercare un’alternativa e, in definitiva, a uscire dall’azienda per cui lavorano.
“Fa bene cambiare dopo 3-5 anni per far crescere la propria professionalità”, ci ha detto la Chief Information Officer di un’azienda dei servizi online. “Ma possono intervenire anche altri fattori che spingono ad andarsene: per esempio, l’insoddisfazione di trovarsi in un’azienda che non vuole veramente fare trasformazione digitale, ma solo manutenzione dei sistemi. Il CIO vuole seguire progetti strategici, non negoziare licenze. Anch’io oggi nella mia azienda vedo che i progetti IT vengono regolarmente tagliati dal budget. Sono demotivata e mi sto guardando intorno”.
“Per molte imprese l’IT è un male necessario per il quale si deve spendere il meno possibile”, osserva il CIO Fabio Mattaboni. “Si pensa all’IT come costi delle licenze software e dei PC, acquisti di server, contratti di rete e manutenzione di programmi come la posta elettronica. Poche hanno chiaro che l’IT si può e si deve usare in maniera strategica a beneficio dell’azienda”.
Può anche accadere che l’azienda perda la fiducia nel Chief Information Officer, ci ha raccontato T.D, CIO in un’azienda della manifattura di medie dimensioni. Che ribadisce: “In tutte le posizioni dirigenziali c’è bisogno di stimoli, di poter seguire progetti interessanti, di vedere che la proprietà o il board continuano a investire. Se l’azienda si mette in modalità gestione anziché innovazione, il CIO perde entusiasmo”.
Il CIO vuole essere riconosciuto come strategico
C’è un punto molto importante. I CIO ci tengono ad essere riconosciuti come tali: Chief Information Officer, una figura strategica ed esecutiva, con un potere decisionale anche sul budget dell’IT.
“Il CIO è per definizione colui che segue progetti di innovazione, non è un responsabile IT”, indica ancora A.M. “Un’azienda che non vuole fare innovazione, ma solo adozione tecnologica, mortifica il suo ruolo, demotivandolo. In alcuni casi nascono persino dei contrasti con la proprietà o il board sullo stipendio, che appare troppo elevato. E, certamente, non è necessaria la RAL di un CIO se quello di cui si ha bisogno è un gestore dell’IT”.
Il sondaggio di Nash Squared conferma che per il Chief Information Officer il primo elemento di attrazione verso il proprio lavoro è un progetto ambizioso e gratificante: è la ragione più citata (quasi dalla metà del campione) per aver accettato l’attuale ruolo.
Al contrario, non essere riconosciuto come strategico favorisce l’abbandono. Il 65% dei manager globali con la qualifica di CIO o IT Director è parte dell’executive team, ma la quota restante non ha peso sulle decisioni. Inoltre, anche quando è a contatto col board, spesso il manager non ottiene aumenti dello stipendio o del budget IT.
Nel complesso, nell’ultimo anno, quasi la metà dei CIO ha ricevuto un aumento in busta paga, mentre per 4 su 10 lo stipendio è rimasto invariato. Coloro che hanno visto aumentare il compenso del 10% o più sono accomunati da alcuni elementi: il loro CEO è molto focalizzato sulla tecnologia piuttosto che sul taglio dei costi, l’intelligenza artificiale è implementata su larga scala nell’organizzazione e l’azienda sta assumendo per far crescere le risorse umane.
Abilitatore della trasformazione digitale
Mattaboniha vissuto personalmente tutte queste dinamiche. Questo CIO ha una precisa interpretazione dell’IT: una funzione strategica che lavora insieme al business per rendere l’azienda competitiva. Il CIO interviene come abilitatore della trasformazione organizzativa. Quando il compito termina, il CIO si fa da parte.
In diverse sue esperienze lavorative, infatti, Mattaboni è stato chiamato in momenti di grande cambiamento che doveva guidare, come CIO, non solo con la tecnologia ma con le due capacità manageriali. E dopo 3-4 anni ha lasciato il posto.
“Questo è il ruolo: gestire progetti che modificano l’organizzazione, con il sostegno dell’imprenditore o del CEO”, afferma Mattaboni.
Una delle aziende in cui questo CIO ha lavorato è un gruppo internazionale del commercio. Il management aveva deciso di adottare un sistema di gestione integrato che, centralizzando gli acquisti, permettesse di razionalizzare i costi e rendere l’impresa più competitiva.
“Il mio compito era di definire tutto il sistema, inclusi i controlli, e accompagnare il change management delle persone”, racconta Mattaboni. “Questo tipo di progetti, inclusa la fase di assestamento e integrazione, dura circa 4 anni e a quel punto la trasformazione aziendale è ben avviata”.
Ma è lì che si innesca la perdita di stimoli: il CIO non vuole fare il manager dell’IT, ma essere strategico. E comincia a cercare altrove.
Il gusto equilibrio tra carriera e fedeltà
“Investimenti, innovazione e trust sono gli elementi chiave per trattenere i CIO”, afferma Helen Fleming, Executive Director – Search & Specialisms at global technology recruiters, di Harvey Nash. “Per assicurarsi che questi manager restino motivati, l’organizzazione deve continuare a investire in tecnologia, che sia un aggiornamento dell’infrastruttura, l’abilitazione della digital transformation o il supporto alla crescita del business tramite l’hitech. Deve anche essere presente una cultura dell’innovazione. Questo potrebbe tradursi nell’uso delle tecnologie emergenti come l’AI per aumentare la competitività, la produttività e l’efficienza. Sono tutti elementi che stimolano enormemente i CIO: la loro ambizione è lavorare in un contesto in cui possono avere un impatto strategico”.
D’altro lato, anche la retention deve essere ben ponderata, secondo Fleming. Non è consigliabile per un’azienda tenere un CIO se una figura così alta non è più necessaria al business. “Molti dei CIO che conosco hanno portato a compimento un progetto trasformativo e poi sono andati via quando il loro ruolo non era più essenziale”, afferma l’esperta. “Questa forma di auto-consapevolezza e la capacità del board di comprenderla creano una transizione sana da un lavoro a un altro”.
Ma quanto è facile per un CIO in Italia trovare un altro lavoro? La percezione è variegata. Alcuni CIO pensano che le opportunità ci siano, anche se la concorrenza è serrata. Per altri, il mercato non è particolarmente dinamico e, soprattutto per le donne, è difficile farsi notare. Ma per tutti è positivo cambiare azienda dopo alcuni anni per rimettersi in gioco e restare aggiornati e competitivi sul mercato.
Per Fleming di Harvey Nash cambiare lavoro per far crescere la propria professionalità e far avanzare la carriera non è, però, una strada obbligata. Né è detto che sia consigliato. “A questo livello manageriale è anche molto importante dimostrare di saper seguire i progetti fino al completamento e produrre risultati con valore strategico”, afferma l’esperta.
Insomma, il CIO deve trovare l’equilibrio tra esperienze troppo brevi – che possono far dubitare della sua capacità di impegnarsi e creare un impatto, e una fedeltà infinita allo stesso posto, che impedisce di allargare gli orizzonti.
Aver fatto esperienza in più aziende dello stesso settore, per esempio, è un grande plus, perché spesso il CIO è la figura di riferimento per risolvere un problema, e il modo più veloce di arrivare a una soluzione è aver visto lo stesso caso ripetersi già più volte nel corso della propria carriera. Ma è una crescita che deve avvenire gradualmente, senza bruciare le tappe, ma nemmeno chiudersi nella comfort zone.
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