L’organizzazione aziendale sta cominciando a entrare a pieno titolo nella moderna interpretazione del ruolo del CIO. Anzi, diversi direttori dell’IT riferiscono che il loro lavoro ha a che fare molto più con la gestione delle persone che con la tecnologia. Supervisionare e guidare la strategia IT, ovviamente, resta fondamentale, ma l’IT come puro servizio è demandabile a terzi, mentre il Chief Information Officer assume saldamente il compito di presidiare il business.
In questo modo i CIO diventano dei veri motori della trasformazione digitale e orchestratori del change management. Spesso, per centrare l’obiettivo del cambiamento, creano nuove figure interne e ridefiniscono i team. Queste riorganizzazioni servono a far comunicare più fluidamente IT e business in modo che la tecnologia sia davvero un abilitatore di trasformazione e traino per le performance aziendali, non semplicemente un nuovo software da imporre dall’alto.
“Il ruolo del Chief Information Officer si è evoluto molto, da gestore di tecnologie a manager a tutto tondo, e in quest’ottica il change management è uno degli aspetti più importanti e più sottovalutati nel successo dei progetti ICT di un’azienda”, afferma Andrea Magnoleretto, CIO e international project manager con una lunga esperienza in aziende italiane e internazionali del beverage e dell’automotive. “La trasformazione digitale è guidata dal leader tecnologico con gli altri manager al suo fianco e richiede che tutta l’organizzazione aziendale sia coinvolta e convinta”.
“Le aziende tradizionali soffrono dei cosiddetti silos, ovvero gestiscono IT e business in compartimenti stagni, senza figure di collegamento, e questo impedisce il successo delle iniziative di digitalizzazione. È qui che il CIO interviene con le figure di raccordo, come i key user, utenti aperti all’innovazione e che usano un determinato strumento digitale tutti i giorni”, dichiara Luca Berton, Principal della divisione IT & Digital di Chaberton Professionals.“I key user possono anche trasformarsi in champion, cioè promotori o influencer interni, chiamati a ridurre la resistenza culturale al cambiamento grazie alla loro opera di evangelizzazione dei colleghi. Il Chief Information Officer trae grande beneficio dall’introdurre figure come queste, ma deve essere molto bravo a selezionarle, individuando le persone con le corrette competenze: esatta conoscenza dei processi, skill tecniche, ma con capacità di farsi capire dal business, e soft skill di dialogo e leadership”.
Il CIO “organizzatore”: key user, champion e demand manager
Fabio Mattaboni, CIO di diversi grandi gruppi industriali, ha più volte creato delle figure specifiche a supporto dell’innovazione.
“Spesso nelle aziende esiste una distanza tra la visione dell’informatica come funzione strategica e la visione solo come costo. Per aiutare a veicolare l’immagine dell’IT come partner delle funzioni operative è mia abitudine introdurre il demand manager, una figura funzionale che fa da ponte tra IT e business, accorciando la catena di trasmissione e traducendo il linguaggio dell’IT in linguaggio del business e viceversa”, osserva Mattaboni.
Un’altra figura che Mattaboni è solito istituire nelle aziende è quella del champion. Questo ruolo si lega all’attività di change management, che garantisce che la trasformazione digitale sia un vero cambiamento aziendale che incide sui processi di business, non solamente nell’IT.
“La trasformazione digitale non significa cambiare un software, ma il modo di lavorare degli utenti aziendali: si devono ridefinire l’uso dei sistemi e le procedure operative e l’IT fornisce la guida sui vari passi da compiere”, evidenzia Mattaboni. “Per questo occorre il change management e, in questa attività, sono importanti i champion, che ricoprono un ruolo significativo e sanno guidare le attività progettuali e sponsorizzarle senza che ogni volta un C-level venga chiamato in causa”.
Mattaboni spiega che i champion accompagnano gli utenti nella fase di applicazione e uso delle nuove procedure e li affiancano nella risoluzione dei problemi. In alcune aziende in cui il manager ha lavorato il champion ha finito col diventare una funzione organizzativa formalizzata, per esempio, assegnandogli il compito di mettere a regime le operazioni amministrative secondo un modello preciso.
“In alcune realtà il champion coincide con il key user, in altre è il più brillante tra i key user”, sottolinea il CIO.
Le comunità tematiche
In diversi casi, Mattaboni ha istituito anche quelle che definisce “comunità tematiche”, ovvero gruppi di lavoro che riuniscono persone che lavorano su temi comuni (per esempio, tutti quelli che fanno ordini nel procurement) e il cui scopo è permettere lo scambio di informazioni su procedure e problemi. Solitamente il manager avvia le comunità tematiche e partecipa ai primi incontri come facilitatore finché i gruppi diventano in grado di funzionare da soli. A suo dire, queste community sono molto efficaci nel rendere gli utenti aziendali del business più coinvolti e più autonomi dall’IT.
Un’altra figura che a Mattaboni è capitato di creare è quella del contract manager. Si tratta di un ruolo un po’ più specifico: nel caso ci siano contratti molto vincolati e strategici, come quelli per la fornitura di una materia prima quotata, il contract manager fa in modo che il contratto sia verificato e corretto in ogni sua parte e ne monitora l’applicazione e i consumi rispetto il budget definito nel corso del tempo.
“In ogni caso, ritengo tutte queste figure una parte integrante del change management: sono tutti strumenti per affrontare i cambiamenti”, conclude il CIO.
L’Impact team e i Focal point
Anche lo stile di gestione di Magnoleretto prevede l’individuazione dei key user nelle funzioni di business. Questo CIO cerca sempre di spiegare le ragioni del cambiamento prima di attuarlo, evitando di calare le novità dall’alto. Per questo servono gli utenti-chiave, che sono direttamente partecipi del cambiamento in quanto ne capiscono la motivazione, e possono influenzare positivamente i colleghi “dal basso”.
Magnoleretto sottolinea i benefici anche della creazione da parte del Chief Information Officer di un Impact team che porti il cambiamento in modo organico ed efficace nel business: “Un sistema informativo avanzato e funzionante, ma che gli utenti non sanno usare, è inutile”, evidenzia il manager.
L’Impact team è un gruppo coeso composto da persone non solo dell’IT ma di tutte le funzioni aziendali, nonché dai consulenti esterni coinvolti nello stesso progetto di digitalizzazione. Tutte queste persone devono allinearsi su ruoli, compiti e obiettivi.
“Il messaggio chiave è che siamo lo stesso team”, sottolinea Magnoleretto. “Tutti riportano al CIO (o al project manager) e tutti siedono allo stesso tavolo: IT, business e consulenti”.
Un altro modo di procedere nella trasformazione digitale, per Magnoleretto, è individuare nel business le persone con le maggiori competenze su argomenti specifici ed elevarle a “Focal Point” interni per argomenti specifici sui quali sono diventate, con l’uso, molto esperte.
“Un esempio: i maggiori utilizzatori di Excel difficilmente sono nell’IT, per cui abbiamo deciso di organizzare anche delle pillole di formazione guidate direttamente dagli utenti finali”, indica il CIO. “L’IT mantiene il ruolo di coordinamento e di promotore del miglioramento, ma, su quegli argomenti, questi utenti erano in grado di fornire una guida ai colleghi molto più delle persone dell’IT o dei consulenti. E quindi perché non affidare loro la formazione?”.
Trappole da evitare
Per molti CIO creare nuovi ruoli è molto motivante, perché si responsabilizzano e si fanno crescere le persone. Molti dei manager che organizzano nuovi ruoli aziendali sottolineano, però, che è importante capire se queste persone sono disposte a mettersi in gioco e cambiare assumendo nuove funzioni. Inoltre è fondamentale assicurare che il loro impegno sia riconosciuto in busta paga, visto che assumono dei ruoli interni chiave.
Al tempo stesso, il Chief Information Officer deve essere molto abile nell’individuare le figure chiave o rischierà un costoso insuccesso: assegnare un ruolo a una persona che non è in grado di svolgerlo.
“Ho sempre cercato di dare il mio parere sulla scelta dei key user e li ho sempre tenuti sotto la mia direzione”, afferma Magnoleretto. I key user, infatti, devono conoscere realmente i dettagli operativi e avere la possibilità di influenzarli, nonché condurre i test d’utilizzo.
In alcune aziende individuarli può essere una sfida: se ci sono team grandi e distribuiti, con differenze culturali e linguistiche, potrebbe, per esempio, presentarsi il caso di una persona che, per competenze, è un perfetto key user, ma non conosce bene l’inglese e non riesce a relazionarsi efficacemente con gli altri.
“Non è una scelta facile per il CIO, ma anche questo fa parte del suo ruolo”, sottolinea Magnoleretto.
Berton ribadisce: “Il key user deve rappresentare la realtà dell’utilizzo quotidiano del determinato prodotto IT, altrimenti si rischia di prevedere delle estensioni o personalizzazioni che non servono veramente. Tipicamente, infatti, non è un manager”.
Un altro esempio classico di fallimento, secondo Berton, è quello del demand manager che si riduce alla persona che organizza i meeting, anziché far dialogare velocemente e efficacemente IT e business.
“Non basta creare il ruolo, ma bisogna valutarne l’efficacia con indicatori tangibili: per esempio, la riduzione del time to market, ovvero i progetti si fanno in meno tempo perché il demand manager sa dare una priorità alle richieste del business”, dichiara l’esperto di head hunting.
Nuove figure: dal Cost Saving Assistant al Data Literacy Manager
Un’altra figura che il CIO deve saper scegliere bene è il product owner, che gestisce il ciclo di vita dei prodotti digitali – per esempio una piattaforma – trattandoli come prodotti per il cliente interno.
“Se ben selezionati, gli utenti chiave o owner permettono di ridurre sprechi, incongruenze nei dati e altri fattori che pesano sull’efficienza”, rileva Berton. “Per questo il CIO organizzatore diventa anche un potente motore di competitività per la sua azienda e deve essere sempre più legato al business. Cito spesso l’esempio di un Chief Information Officer che ha ridotto il numero di camion per la distribuzione che ogni giorno la sua azienda faceva uscire suggerendo un intervento sul packaging: ha potuto farlo solo conoscendo i dati del dipartimento logistico”.
Questo CIO che investe nel collegamento col business per favorire la trasformazione digitale a volte fatica a imporsi, perché il top management, o la proprietà, tendono ad essere concentrati sul contenimento dei costi. Ma c’è un possibile intervento organizzativo anche per questo, sottolinea Berton: il Chief Information Officer può inserire figure di aiuto al cost saving.
“Si tratta di persone che rilevano le inefficienze, ma senza presentarle come un’intrusione nei team altrui o come una critica del loro operato. Piuttosto i cost saver sono creatori di best practice di funzione, che suggeriscono come migliorare alcune prassi e fornire un modello di efficienza a tutta l’organizzazione”, dice l’esperto.
Secondo Berton, presto arriverà anche l’AI Governance Officer, che media tra la parte compliance ed etica e quella delle opportunità dell’intelligenza artificiale e sa allineare i progetti tra quest’ultima, gli impatti e gli obiettivi di business. Un’altra nuova figura sarà il Data Literacy Manager, che trasforma i dipendenti non tecnici in utenti che conoscono dashboard, KPI, e altri data product.
I ruoli possono essere molteplici, anche a seconda delle specifiche esigenze aziendali: in tutti i casi sono utili al CIO “organizzatore” per creare valore aggiunto e far comunicare in modo sempre più efficace l’IT e il business a favore dell’agilità e dell’innovazione.
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